Storie vere del passato castelbuonese | U zzu Jachinu Rucciuliddru e gli ultimi lupi delle Madonie (parte 2)
Storie vere del passato castelbuonese
U ZZU JACHINU RUCCIULIDDRU E GLI ULTIMI LUPI DELLE MADONIE
(parte 2)
Di Giuseppe De Luca
[parte 1 disponibile a questo link]
Si sentiva, in lontananza, qualcosa fra gli alberi, ma la lupa non si presentava ed il cacciatore frattanto continuava a girare con forza gli orecchi ai poveri animaletti. Finalmente, dopo un lungo aspettare, apparve la sagoma nera della lupa: si stagliava in una stretta radura: immobile ed indecisa. Un altro tiro: e anche questa volta l’infallibile colpo era andato a segno! L’uomo saltò a terra ed andò a constatare: il sangue della lupa, ormai inerte arrossava la candida neve!…
Questa volta fu lui a chiamare i pastori e costoro, comprendendo, poco dopo, trafelati ed ansanti, arrivarono al completo: le espressioni di meraviglia non finivano più: erano proprio due bellissimi esemplari, come rarissimamente se ne erano visti: finalmente, nell’ovile si poteva riprendere fiato!
A gara, quei pastori vollero aiutare u zzu Jachinu Rucciuliddru a trasportare giù le bestie morte, fino al màrcato, mentre altri si incaricavano di scendere l’agnellino e i lupacchiotti vivi. All’ovile altra festa, altra gioia: ma u zzu Jachinu ormai voleva rientrare in paese.
Legati i due lupi con la testa in giù, a bilancia sul basto, saltando agilmente in groppa al mulo, il cacciatore, sorridendo fra un mare di applausi ed un frastuono di battimano, ricevette sulle ginocchia anche un sacco dove erano stati rinchiusi i lupacchiotti e, ormai soddisfatto, iniziò la discesa: il sole era già alto e la neve cominciava a liquefarsi.
Fece relativamente presto a raggiungere la periferia alta di Castelbuono e quivi, darra i mura (l’attuale via delle Madonie), cominciarono a farsi sentire anche i caprai, che, con quel tempo, non si erano recati al pascolo.
La voce si sparse in un baleno in tutto il centro abitato: accorsero contadini, uomini di ogni età, le donne si affacciarono, i ragazzi vollero essere partecipi. U zzu Jachinu Rucciuliddru avanzava verso casa fra il tripudio collettivo, fra grida di ogni genere, fra la meraviglia del popolo. Anche la moglie, a zza Dominica Meli, si affacciò e ringraziò il buon Dio.
Ma giunto davanti la porta di casa sua, â punta â cursa, per il cacciatore fu impossibile smontare dal mulo. Qualcuno aveva proposto di fare il giro per le vie principali: tutti ora lo pressavano: e il buon uomo dovette arrendersi alla volontà popolare. I ragazzi si erano di corsa forniti di vari tipi di campanacci da gregge e li agitavano entusiasticamente, gli amici lo circondavano compiaciuti, le donne non si stancavano di guardare. Il sacco venne sciolto ed i quattro lupacchiotti vennero contesi da esperte mani di adulti, che li alzarono per aria. Qualcuno afferrò prepotentemente le redini del mulo, dal cui basto continuavano a penzolare i due lupi e per il baldo campiere fu un vero trionfo. Il corteo discese la stradalonga fra un frastuono mai sentito; ingrossandosi sempre più, man mano che procedeva, supra u ponti svoltò per la chiazza nnintra.
Quivi, il custode del carcere, nell’entusiasmo generale del momento, non seppe trovare di meglio, per manifestare il suo personale gradimento, e si attaccò a suonare una piccola campana che, a quei tempi, pendeva da un travotto infisso sopra l’architrave di pietra della finestra centrale dell’edificio. A questo punto necessita una piccola digressione: secondo la tradizione, in tempi lontani, la piccola campana era servita per avvertire i cittadini dell’esposizione alla gogna di qualche ladruncolo. Costui, dopo la condanna, veniva legato ad un palo infisso a terra davanti alla porta, sul cui architrave di pietra, ancor oggi, si legge «Discite justitiam, populi 1793» ed il popolo, secondo un’antica usanza, poteva divertirsi ad oltraggiare, per un giorno o più – secondo il caso –, il povero disgraziato colpevole, sputandogli, strofinandogli in viso frutta marcia, che attirava mosche ed insetti, e ad imbrattarlo perfino con sterco animale. Sembra che ce ne sia stato uno, incorreggibile, che diede il nome alla contrada Satalùoru (dallo spagnolo salte’ar ‘rubare alla macchia’ e salteador ‘ladruncolo di macchia’); divenne famoso perché ricadeva spesso nelle stesse colpe e perché si rifugiava in un pagliaio di detta contrada.
Dal 1862 (data dell’istituzione, a Castelbuono, delle scuole pubbliche) fino al 1872, la campana era servita per radunare gli alunni alle lezioni; i maschi nella discesa Scuole e le femmine nel Collegio di Maria.
Dopo la soppressione dei beni ecclesiastici le classi maschili funzionarono nei locali dell’ex convento di S. Francesco e le classi femminili nei locali dell’ex mona stero di S. Venera, alla Badia. La campana era rimasta, frattanto, del tutto inoperosa: ma, ormai, aveva fatto il suo tempo.
Quel giorno il custode tirò così forte la corda in onore du zzu Jachinu che il travotto, corroso e fradicio, si spezzò e la corda della campana gli rimase in mano con il troncone di legno.
Fino al restauro del carcere, e cioè fino a pochi mesi addietro (ci si riferisca al 1989 n.d.r.) , la radice di questo travotto si vedeva infissa ancora sull’architrave di pietra della finestra centrale; venne tolta e il buco tappato da una pietra che si può sempre notare perché diversa da tutte le altre del prospetto.
Il giro terminò alla piazzetta con le ultime culminanti acclamazioni e manifestazioni e u zzu Jachinu finalmente poté smontare e riposare.
I lupacchiotti, tranne uno, vennero regalati. Uno, il cacciatore volle allevarlo in casa. Dopo quasi un anno dalla cattura era diventato abbastanza grande: girava per l’abitazione e non dava fastidio a nessuno.
Un giorno a zza Dominica, in cucina, aveva preparato alcune foglie di tagliatelle e ne aveva già stese parecchie fettucce su due canne. Il lupacchione, che assisteva nell’ambiente, si avvicinò un po’ troppo alla pasta e la massaia, indispettita, lo scacciò in malo modo. Non l’avesse mai fatto!… Il lupo, (che perde il pelo ma non il vizio), le si avventò contro tentando di morderla: la donna gridò e cercò di difendersi con il mattarello che in quel momento trovò a portata di mano. Buon per lei che il marito si trovava in casa: u zzu Jachinu salì di corsa la scala di legno e con la sua terribile laparda atterrò l’animale.
Non sapeva, in quell’istante, di uccidere l’ultimo lupo delle Madonie: difatti, negli anni successivi, non si videro più lupi, né si ebbero notizie di ulteriori danni arrecati dai feroci animali.
Era stato proprio u zzu Jachinu Rucciuliddru a sterminare gli ultimi lupi delle nostre montagne.
Il cacciatore si diede ad altri tipi di selvaggina, che allora era molto abbondante (lepri, conigli, pernici, volpi, martore) e, morendo, lasciò due ragazze, Maria Giuseppa di anni quattordici e Rosa di anni undici, e un fanciullo di otto anni, Mariano, oggi anziano, che ne ereditò, nel sangue, la passione venatoria.
Il figlio di questo esperto e laborioso pastore, Gioacchino Martorana, presto sentì, pure lui, il fascino ed il richiamo della caccia. A sedici anni ottenne dal padre la garanzia per la licenza del porto d’armi, onde poter soddisfare la vocazione. Purtroppo, il bravo giovane, in un pomeriggio d’autunno di un decennio addietro, mentre riponeva il fucile dentro la sua «850», in contrada Liccia, ne subì un fatale e mortale colpo, partito accidentalmente dall’arma. Questo colpo troncava immaturamente l’esistenza del promettente ventiquattrenne, già pratico muratore e provetto elettricista, infaticabile e versatile lavoratore…