Un episodio dimenticato della fanciullezza del sindaco Antonio Spallino nel centenario della morte
(Riceviamo e pubblichiamo) – Ricorre oggi il centenario dell’uccisione del sindaco Antonio Spallino, avvenuta nella serata di sabato 17 settembre 1921 nei pressi del ponte di Don Tumasinu, subito dopo la fine del rettifilo della Madonna del Palmento in direzione Isnello. Era una serata di luna piena e ciò facilitò enormemente il compito degli assassini che, appostatisi nei pressi, appena il sindaco accompagnato da un impiegato comunale superò il ponticello, emersero da sotto le spallette e non ebbero difficoltà a centrarlo alle spalle con tre colpi di fucile.
Al di là delle superficiali celebrazioni di circostanza, frettolosamente allestite oggi, di ciò che di doveroso si sarebbe dovuto fare, al di là di ciò che dovrebbe essere detto e di chi lo dovrebbe dire, noi oggi, prima di entrare con un’ulteriore puntata nei dettagli ma anche nel movente dell’omicidio che, sia chiaro, fu politico e non da ascrivere ad alcuna forma di vendetta dei caprai, come è stato tramandato, dedicheremo questa puntata del centenario a un episodio poco noto della vita fanciullesca del sindaco Antonio Spallino.
Antonio Spallino era nato nel maggio del 1884 da Paolo Spallino e da Lucrezia Lupo. Il padre era un ricco commerciante, la madre era nipote di Nicasio Mogavero, poeta e sindaco di Castelbuono, anch’egli possidente più che ricco. Per avere una idea sia pur vaga, Nicasio Mogavero – che abitava nella casa della Piazzetta dove attualmente è la sede della Banca Intesa San Paolo – era proprietario di tutti i fabbricati che da lì, lungo l’attuale via Mariano Raimondi, si estendevano fin Darrìa i mura. Compreso il mulino, e molti altri beni ancora.
Paolo Spallino era già un facoltoso commerciante di olio, manna, formaggi e per tutti a Castelbuono era U Principali per dire che era il primo per importanza nel commercio. In origine era stato un modesto commerciante di pesce salato ma a un certo punto le cose cambiarono e, come si dice, saltò il fosso. I castelbuonesi immediatamente misero in relazione questa trasformazione di condizione economica col fatto che Paolo Spallino avesse spignato una truvatura, cioè trovato un pentolone pieno di monete d’oro in una rriseca del muro di una casa.
Ovviamente, tutti lo dicevano ma nessuno aveva contezza di ciò. Ma poco importa. Sta di fatto che Il Principale, già negli anni Novanta dell’Ottocento, aveva il monopolio dei più importanti prodotti del paese nonché di alcune merci di importazione. Il suo capitale aumentava di anno in anno e la sua reputazione di commerciante facoltoso e sicuro si allargava, soprattutto presso le banche e presso i grossi nomi del commercio del capoluogo.
La posizione economica del «Principale» e l’accrescimento della sua ricchezza a partire dall’acquisto di tutti i beni dello zio Nicasio Mogavero nel 1896 ma anche di altri fabbricati e terreni, che generava nell’ambiente locale invidie e maldicenze, come quella della truvatura, non poteva sfuggire ai malfattori i quali meditavano il colpo grosso. Che di fatto progettarono e misero in atto nel luglio 1897.
Il Principale, che nel commercio era in grado di governare molte variabili, non valutò attentamente che non sarebbe stato per niente prudente, in quel periodo di brigantaggio diffuso, sia pure in compagnia dei contadini, far pernottare durante il periodo della trebbiatura uno dei suoi figli, per l’appunto il mezzano Antonio che all’epoca aveva 13 anni, in una campagna lontana dall’abitato, ubicata con ogni probabilità in contrada Mulini. Infatti una notte i briganti sorpresero il ragazzo sull’aia, lo rapirono e lo tennero in ostaggio in un qualche casolare di quelle sperdute colline. Secondo quanto riportato allora dal quotidiano “La Stampa” il ragazzino subito dopo il sequestro fu costretto a seguire i rapitori discendendo la collina e a guadare il fiume dei Mulini fino alla prigione.
I fatti relativi ai giorni seguenti sono così narrati da Nzulo Cicero, di qualche anno più piccolo di Antonio Spallino.
La notizia giunse subito al «Principale» a mezzo della solita lettera minatoria: «O la consegna di diecimila lire, o la morte del ragazzo» e si sparse per tutto il paese, sussurrata con discrezione da un orecchio all’altro. Volutamente all’oscuro vennero lasciati, invece, i carabinieri.
Colpito nella parte più sensibile del suo cuore, il «Principale» si accingeva a provvedere ma, abituato a trarre vantaggio dalla trattativa, pensò che non doveva farsi prendere la mano dal sentimento e che bisognava riflettere. La faccenda esulava però dal campo commerciale, in cui egli era maestro, e richiedeva prudenza e la guida di una persona di stretta fiducia.
Si rivolse, perciò al cognato, don Michelangelo Lupo il quale, nella sua qualità di persona istruita e di prete gli sarebbe stato confidente, amico e prezioso consigliere. Con lui, poste due sedie sul marciapiede accanto alla bottega alla Piazzetta, ne ragionava sottovoce il mattino dopo, un po’ seduto, un po’ costretto ad alzarsi per qualche affare. Il prete era un uomo di animo forte e sosteneva che la somma richiesta, di diecimila lire, era rilevante ed eccessiva e che, tanto per cominciare, si poteva cercare di offrire cinquemila lire.
Ma il Principale si preoccupava della sorte del figlio: «E se frattanto mi ammazzano u picciriddru?». Il prete rimaneva impassibile e continuava a tabaccare tranquillamente e a scacciare col fazzoletto la spolverata di tabacco che cadeva sul fondo scuro del robone, lasciando la sua traccia di giallo stinto.
Frattanto il piccolo prigioniero languiva, sconsolato, e meditava sulla incerta sorte mentre veniva costantemente guardato a vista dai briganti, di cui uno, Sorce, di aspetto sinistro e di animo spietato, gli mostrava sempre il pugnale col quale lo avrebbe sgozzato, se il padre non avesse mandato presto il danaro della taglia che avevano posto sul suo capo. L’altro brigante, Murgia, non era così brutale, aveva per il ragazzo uno sguardo umano e si frapponeva sempre fra lui e l’iracondo compagno, in atteggiamento protettivo. Vedremo che il prigioniero gli rimarrà grato di questo suo comportamento.
Murgia aveva un moncherino, ma sapeva far valere le sue ragioni col solo braccio destro, col quale adoperava molto bene il fucile. Passarono diversi giorni di ansia, tanti, le cronache del tempo dicono 19 e anche la popolazione che seguiva con apprensione la vicenda ne auspicava la felice soluzione.
Il riscatto infine fu pagato (sulla base, a quanto si disse, di ottomila lire) e finalmente il ragazzo
venne restituito alla famiglia.
Per il «Principale» fu un giorno di esultanza che lo indusse, con un gesto di incontenibile larghezza, a pagare cento lire alla banda cittadina, perché facesse un giro per il paese in segno di giubilo. Quando, alla fine del giro, la «musica» si fermò davanti al palazzo di lui, il ragazzo si affacciò da un balcone e i segni delle emozioni di quei terribili lunghi giorni erano molto visibili e il suo viso era pallido e smunto: ma trovò la forza di ringraziare i musicanti e la piccola folla che gli stava attorno.
Qualche tempo dopo, i due rapitori del piccolo Spallino vennero assicurati alla giustizia. Racconta ancora Nzulo Cicero che a dorso di mulo, sfilarono i due per le strade di Castelbuono per raggiungere la caserma dei carabinieri a San Francesco. Murgia con giacca di velluto e moncherino e una faccia quasi di brav’uomo, Sorce con la sua naturale grinta di uomo tristo e malaticcio andavano incontro al carcere con indosso un grosso carico di colpe.
Cominciavano i giorni della prigionia; giorni lunghi, senza luce e senza speranza, appesantiti dal severo giudizio dei tribunali, dal biasimo e dall’avversione di tutti; i giorni che avrebbero reso più duro e amaro il pane del carcere.
Grande fu perciò la loro sorpresa, conclude Nzulo, quando ricevettero un lauto pranzo proprio dalle mani del loro ex prigioniero, che li guardava sorridendo, come si fa quando si incontrano vecchie conoscenze. In effetti non avrebbero mai potuto immaginare tanta generosità da parte sua, soprattutto nei confronti del truce Sorce.
Antonio Spallino aveva certamente voluto sdebitarsi nei confronti di Murgia che, a quanto pare, più e più volte nel corso di quei lunghi giorni di sequestro lo aveva protetto dalle intemperanze di Sorce e questo significativo atto adolescenziale fornisce già la cifra della bonomia di questo ragazzino che avrebbe accresciuto nel corso della sua breve ma intensa vita e che, insieme alla riconosciuta rettitudine e allo spessore morale, ne avrebbero fatto uno dei migliori figli di Castelbuono, oltre che un indimenticato sindaco, per quanto minimo sia stato il suo governo.