Una arcaica tradizione pastorale della sera della Tufanìa a Castelbuono
In una società come la nostra, fondata su credenze derivanti dal radicato ancoraggio al mondo e alla civiltà silvo-pastorale, prima del colonnello Bernacca e del meteo.it le rassicurazioni, anzi le certezze meteorologiche, ci arrivavano dal mondo della pastorizia e dai contemplativi pastori, accreditati come depositari delle predizioni del tempo meteorologico. Si soleva dire, infatti, i picurara u canùscin’u tìempu.
Ciò, sulla base di esperienze e di saperi remoti tramandati oralmente per secoli e riguardanti osservazioni della Luna, del cielo, delle sue condizioni di nuvolosità e di serenità, dello spirare dei venti. Per esempio, dall’osservazione di quel caratteristico alone che talvolta circonda la luna, e che chiamavano u chìrchiu,riuscivano a fare i loro pronostici: se era minuscolo asserivano che non sarebbe piovuto; al contrario, un alone più grande indicava imminenti precipitazioni e, infine, u chìrchiu parecchio esteso, indicava loro che nel brevissimo periodo si sarebbero avuti venti di scirocco. Osservando la (apparente) maggiore grandezza e la diminuzione di luminosità delle stelle concludevano che il tempo sarebbe stato pisanti, rigido. Un po’ come quando pronosticavano gran freddo osservando che la brace nel fucagnu era particolarmente vivida o, ancora, la deduzione dell’arrivo del maltempo dal canto insolito della coturnice: Quannu canta la pirnici a lu chiarchiaru, arricampa ligna a lu pajjaru.
Ancora più sorprendenti erano la previsioni di nevicate, specialmente se fatte con il bel tempo in corso. Quantu suli ppi la Cannilora vidi, tantu si cummojja di nivi dice uno dei tanti proverbi pastorali elaborati durante una dura vita condotta all’addiaccio. Accadde una volta, nel corso di una mattinata in pieno inverno, che avendo un anziano pastore notato nel cielo una sinistra rasoiata di sole, accompagnata da un certo tepore dell’aria, intimò nel màrcato di prepararsi, caricare le bestie di tutto il necessario, avviare le mandrie verso valle, lasciando immediatamente quel posto: di ccà amu a scappari!, disse freneticamente. Tutti pensarono che il vecchio curàtolo fosse impazzito ma di lì a pomeriggio cominciò a nevicare a larghe falde, intensamente, come non si era mai visto e a sera la neve era già arrivata a mare.
Alla stregua dei navigatori, attraverso l’osservazione delle stelle, i pastori erano in grado di orientarsi nello spazio e nel tempo. Ecco allora che se il Gran Carro, a Puddrara (le Pleiadi), a Scala di San Iàpicu (la Via lattea), a Curuna dâ Madonna (la Corona boreale) consentivano di ricavare istantaneamente la loro posizione spaziale, a Stiddra di l’arba (Lucifero, stella del mattino), a stiḍḍṛa dû vuaru (Castore e Polluce dei Gemelli) u Triali (le tre stelle della Cintura di Orione) col loro sorgere e tramontare fornivano informazioni assai precise su quanto alta fosse ancora la notte o quanto prossimi si fosse all’alba e quindi a sbruccari.
I pastori, inoltre, erano in grado di costruirsi il calendario dell’anno, alla maniera degli astronomi, determinando il plenilunio di primavera e quindi le feste mobili religiose: Pasqua, Ascensione, Corpus Domini, SS Trinità, Pentecoste, Prima Domenica d’Avvento, Le ceneri. Una volta, durante una inchiesta dialettologica, un vecchio pastore mi disse: unn’è mmatinê Cìnniri siddri un c’è a luna nova, cioè Le Ceneri cadono sempre nel novilunio. Poi fai due calcoli e ti rendi conto che è manifestamente così. Il plenilunio di primavera, e quindi la data della Pasqua, lo determinavano, sembra incredibile, con l’Epatta che loro chiamavano i patti. Il mio informatore ricordava di avere visto fare quegli strani calcoli al suocero, un vecchio arbitianti,ma cinquant’anni dopo non fu più in grado di ricostruirli e spiegarmeli. Non penso sarà mai più possibile recuperarli, così come la complessa cultura pastorale del cielo. E’ una cosa di cui mi dolgo profondamente.
La Luna, come si sa, ha una grande influenza sui fenomeni naturali e, in particolare, si crede ne abbia sull’andamento del clima. Secondo la tradizione popolare, il tempo meteorologico era regolato dai noviluni di marzo e di settembre, relativi cioè ai mesi degli equinozi, i quali erano in grado di determinare le condizioni meteorologiche per i successivi sei mesi. In altri termini, se il novilunio di marzo e di settembre si ha in coincidenza di giornate di vento o di pioggia, lo stesso accade per buona parte dei sei mesi a venire. Ricorda infatti un proverbio che a luna mastra cuverna se’ misi. La luna nuova di marzo e di settembre, a luna mastra,è regolatrice del tempo a venire.
Ad una antica credenza di particolare rilevanza era legato il computo dî calenni, delle calende, vale a dire dei dodici giorni che precedono e seguono il Natale. Intanto, teniamo presente che, preso il giorno del Natale come centro, spostandosi di dodici giorni indietro andiamo a finire a Santa Lucia mentre andando dodici giorni avanti tocchiamo l’Epifania. Ogni giorno simboleggia un mese dell’anno. Per cui al 13 dicembre corrispondeva il mese di gennaio, al 14 dicembre il febbraio, alla vigilia di Natale il dicembre dell’anno seguente. Dai dati di secco o di pioggia che registravano in questi dodici giorni ricavavano pronostici per l’anno seguente; così se il 13 dicembre pioveva pronosticavano un gennaio piovoso, se il 14 dicembre fosse stato bello avrebbero concluso che febbraio sarebbe stato secco e così di seguito fino alle condizioni registrate la vigilia di Natale, che avrebbero fornito loro le previsioni per il successivo dicembre.
Dal momento che gli accadimenti meteorologici che rimarcavano maggiormente ai fini delle loro previsioni erano quelli che più influenzavano la vegetazione, accanto alla pioggia si preoccupavano di pronosticare anche i venti.
A tale scopo, dall’indomani di Natale contavano altri dodici giorni stavolta, però, abbinandoli in senso inverso per cui al 26 dicembre facevano corrispondere il dicembre dell’anno venturo e al 27 dicembre il prossimo novembre. In questo modo, al 5 gennaio corrispondeva febbraio e al 6 gennaio il mese di gennaio appena entrato. Ebbene, in base alla intensità e alle direzioni dei venti registrati in quei giorni, concludevano che i dodici mesi seguenti avrebbero avuto, nell’ordine, press’a poco gli stessi venti con le stesse intensità.
Questa tradizione ascende a diversi secoli addietro e naturalmente va considerata non per la discutibile validità scientifica ma solamente per il suo valore etnoantropologico. La cosa che ha destato la mia attenzione è che un’altra tradizione sul rito dei venti, legata anch’essa all’Epifania e raccolta dalla viva voce dei miei informatori, ci sia arrivata slegata da quella che ho appena descritto mentre io penso che ne costituisca il logico finale e certamente un tempo dovette essere così.
Mi pare di capire che nella tradizione popolare si sia creato un interessante intreccio fra sacro e profano a proposito della festa della Teofania, a Tufanìa. Il termine Teofania (che indica la medesima festa anche nelle Chiese di rito orientale), associato al fatto che il 6 gennaio in quelle Chiese celebrano il battesimo di Gesù e non l’Annunciazione dei Magi, mi suggerisce di inferire e di creare un ponte fra sacro e profano che connette il sacro battesimo con il battesimo dei venti, a partire da quelle osservazioni popolari svolte tra il 26 dicembre e il 6 gennaio.
Infatti, tradizionalmente ogni anno, il sei gennaio, a sera fatta, ci si recava ô Cùozzu Abbucatu, nei pressi del Piano San Paolo, un sito dove, come tutti sanno, u vìentu cci po’ pataternu e lì, sul cocuzzolo, ai quattro venti, si svolgeva un rito ancestrale, una sorta di battesimo pagano: si vattiàvanu i vìentira, si battezzavano i venti. Una sorta di ufficializzazione dell’anno eolico. In altre parole, si lanciavano controvento dei pugni di crusca per rilevare se spirassero venti e in quale direzione. Da ciò si deduceva, intanto, l’andamento eolico per il mese di gennaio corrente quindi si elencavano, sulla base delle osservazioni pregresse, quali sarebbero stati i venti per i successivi mesi.
Avere trovato la parte mancante di quella antica pratica popolare, relativa ai calenni, permette di ricostruire abbastanza fedelmente la cerimonia pagana del battesimo dei venti che nell’immaginario di noi insensibili automi del XXI secolo produce pur sempre una qualche suggestione, se non altro per la figura di questo cerimoniere che, con toni ieratici, declama predizioni che si dissolvono nel vento e nel buio, dileguandosi nell’immensità del tempo.