Una fiaba madonita nella tradizione castelbuonese: a ccu sputa ncielu nfacci cci torna – parte 2


UNA FIABA MADONITA NELLA   TRADIZIONE   CASTELBUONESE – A CCU SPUTA NCIELU NFACCI CCI TORNA -PARTE 2
di Giuseppe De Luca
[Pubblicato su Le Madonie, 15 aprile 1989]
Parte 1 disponibile a questo link

Capitava poi nelle scarse capanne dei rari agglomerati che costituivano i centri abitati della zona in quei tempi, diffondendovi le sue preghiere, sempre ben accette dalla povera gente, che, ricevendo dalla sua presenza ragioni di sollievo per le sue pene e ondate di calore mistico, era ben lieta di gareggiare per potergli offrire qualche frutto, un sorso di latte, uno scarso tozzo di pane, che, però, u rrumitu andava sistematicamente ed immediatamente a spartire con gli altri miseri afflitti di quell’epoca.

In questa vita di meditazioni e di mortificazioni, contento di un minimo di briciole per il sostentamento quotidiano, umiliandosi nelle fatiche più infime, egli trovava l’unico modo per sentirsi un po’ più vicino al Signore ed al suo prossimo.

Fra l’altro, provava anche particolare soddisfazione nel recarsi a bussare alla porta del ricco palazzo del re, che abitava su una cima in fondo ad una valle rigogliosa di alberi da frutto, ricoperta di una vegetazione che produceva ogni ben di Dio: un vero paradiso terrestre. Quivi aveva l’occasione di porre in risalto la sua miseria e poteva trovare un paragone adeguato per la sua ineguagliabile indigenza, mai abbastanza pesante, mai sufficientemente patita se posta in relazione alle esigenze e alle tendenze del suo temperamento .

Davanti al colonnato della reggia al rrumitu veniva soddisfatta la sua massima aspirazione, soprattutto quando l’accentratrice dovizia di quel signore e della sua corte gli infliggeva a mezzo dei servi e dei soldati le peggiori frustrazioni: dileggi, parolacce, sarcasmi, sgignazzate, qualche bastonata. E se lo scacciavano in malo modo, proprio brutalmente, minacciandolo di farlo sbranare dai cani ringhiosi che gli aizzavano addosso, per lui arrivava, insomma, il momento del più felice appagamento alle sue mortificazioni, che riteneva sempre ben poca cosa, specialmente continuando a tener fissi il suo pensiero e la sua considerazione al martirio ed alla passione di Gesù Crocifisso che lo aveva redento con il Suo Sacrificio.

Un giorno di freddo intenso, si era d’ inverno, nel cuore dell’inverno, trovò sulla porta di questo lussuoso palazzo il capo delle guardie, sì, il capo in persona, il quale si recava in quel preciso momento a conferire con il re. Pressato da più onerosi pensieri ed indispettito inoltre dalla ingombrante presenza rrumitu, il capo della guardie, giunto al cospetto del re, gli riferì di quell’assillante, antipatico, solito elemosinante che viveva da parassita – parlava evidentemente sempre dello straccione – alle spalle di quella povera gente che faticava e sudava.

Il re, quel giorno, era anch’egli di cattivo umore. A ciò si aggiunse il fastidio del racconto che il capo delle guardie gli faceva: non poteva più sentirne parlare. Pur non conoscendolo personalmente, non voleva ulteriormente tollerare le noie e i disturbi che apportava alla sua corte quel miserabile. Pensò e ripensò e finalmente prese una decisione: diede ordine di mescolare nella focaccina che quella volta i servi avrebbero portato al lacero mendicante una forte dose di potente veleno: solamente così si sarebbe potuta chiudere quella partita. I servi, ben lieti di potersi finalmente togliere dai piedi quell’assiduo e tenace rompiscatole, ubbidirono immediatamente ed addirittura, per avere modo di somministrargli una maggiore dose di veleno, gli prepararono la focaccia più grande che trovarono a portata di mano.

C’era nell’aria un gelo mai visto: era un’annata di incredibile carestia, ed il santo eremita rimase sorpreso. Indicibilmente lieto di quello che aveva ricevuto, ringraziando e invocando su tutti ogni benedizione dal cielo, pensava già che avrebbe avuto modo, questa volta, di rendere veramente satollo qualche povero affamato. Si avviò quindi verso il suo solito ricovero sulla montagna.

Nella notte si scatenò un furioso temporale – lampi, tuoni, neve – che presto coprì tutto il panorama: u rrumitu guardava fra il chiaror delle saette e non volendosi sfamare con quella focaccia, perché l’aveva riservata ad altri miseri, si ritrovò più felice di sempre ad offrire, per tutta la nottata, la privazione dell’alimento a portata di mano con i morsi di una fame lancinante, aggiungendovi le sofferenze del freddo: al solito dedicava tutto e di tutto cuore in penitenza al Signore, in remissione dei suoi peccati e di quelli del mondo intero, come rituale ringraziamento della Redenzione che il Cristo aveva offerto ad ognuno sul Golgota. Albeggiava: la tempesta era passata, il cielo si era rasserenato e si preannunciava una giornata di sole.

Il re che, in quella terribile nottata, aveva sentito improvviso ed imperioso il richiamo del capriccio venatorio, che si era messo a pungolarlo incessantemente, profittando, dopo mezzogiorno, di un momentaneo di tepore, si decise ad uscire dalla reggia ben coperto e ben armato, seguito dai suoi fedeli. Intendeva divertirsi in una battuta di caccia sulla neve: in tutto quel territorio abbondava la selvaggina di ogni genere; specialmente numerosi erano i cervi, che davano il nome ad un massiccio, appendice delle montagne.

Dopo molto cammino, trovandosi ormai molto distante dalla reggia per aver inseguito un branco di cervi, il re con i suoi venne a salire le aspre pendici di una montagna. All’improvviso, mentre scendeva una fitta nebbia che toglieva qualsiasi visuale, scoppiò furiosa e terribile una tempesta di grandine. Le precipitazioni, fra fulmini e tuoni, si intensificarono ed un prolungato rumorosissimo tuono, dirompendo a brevissima distanza dalla contrada dove il re vagava con i suoi uomini, fece impennare il suo cavallo . L’animale, impaurito, girò su se stesso e si lanciò senza controllo a galoppo in mezzo alla boscaglia, finché, disarcionato il cavaliere, si perdette nella tormenta. Nessun altro del seguito aveva avuto la possibilità di tenergli dietro. Intanto iniziava a far buio e la tempesta continuava: del quadrupede non restavano e non si avvistavano neanche le orme. Ricominciava a nevicare e il re ormai appiedato, non scorgendo alcun uomo, pensò bene di avviarsi verso una grotta che intravedeva nelle vicinanze. Dopo una rapida salita, la raggiunse ansimando ed ecco che ebbe la sorpresa di trovarvi un uomo che, lacero e barbuto, in ginocchio pregava davanti ad una rustica croce di legno: era un’anima vivente… in quell’inferno della natura!

Gettò una voce di richiamo ed entrò. Lo straccione si voltò e, riconoscendo il suo re, provò un misto di paura e di contrizione in quanto non poteva accoglierlo adeguatamente. Ma questi non gli diede il tempo di parlare; non avendolo mai visto, come si è detto, non riconoscendo quindi l’intruso mendicante disturbatore della quiete della sua corte, gli si era avvicinato. L’eremita, riflettendo, ad un tratto si sentì allargare il cuore: gli era venuta l’idea che Dio gli inviava un ospite e quindi l’ occasione di poter continuare a dargli prova di attaccamento servendo il prossimo. Ed il modo migliore quello di restituire al suo simile il favore ricevuto in mattinata; pertanto, trepidante ma felice, gli offrì integralmente l’unico pane che possedeva per rifocillarlo dalla stanchezza: si vedeva chiaramente che nella grotta non esisteva altro.

Il re, in attesa che qualcuno dei suoi soldati si presentasse, cominciò ad addentarlo; però ne aveva masticato pochi bocconi che cadde riverso e tramortito a terra. L’eremita rimase stravolto: si preoccupò che il freddo potesse aver provocato qualche malessere, si agitò e cercò con tutte le sue forze di rianimarlo, ma il re ormai non dava alcun segno di vita. Ogni speranza di soccorso e di farlo ritornare in sé svaniva sempre piu. Pensando ad altri probabili e possibili rimedi ad un tratto u rrumitu sbiancò: pensò al pane. E se fosse stato intriso di veleno? Si terrorizzò e cominciò a tremare. E se fossero arrivati subito i soldati?…

CONTINUA…

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