Una fiaba madonita nella tradizione castelbuonese: a ccu sputa ncielu nfacci cci torna – parte 3


UNA FIABA MADONITA NELLA   TRADIZIONE   CASTELBUONESE – A CCU SPUTA NCIELU NFACCI CCI TORNA -PARTE 3
di Giuseppe De Luca
[Pubblicato su Le Madonie, 1 maggio 1989]
Parte 1 disponibile a questo link
Parte 2 disponibile a questo link 

Ed anche se i soldati non fossero arrivati subito, presto o tardi avrebbero cercato e trovato il loro re: e che avrebbero fatto?… Quali le conseguenze?… L’eremita non pensò a se stesso ma, anzitutto, agli abitanti della zona: conoscendo i metodi di quei soldatacci immaginò con terrore i castighi e le vendette che i poveri cristiani di quelle terre avrebbero dovuto subire da parte di quella gentaglia. E allora?… Già!… Ma ora?… E pensava pure, frattanto: e se quel pane fosse stato diviso fra i componenti di una famiglia? Intanto il buio si addensava: forse sarebbe stato meglio far sparire il corpo del re… E come?… Impossibile!… Un corno di capra giacente a terra, all’imbocco della caverna, gl’illuminò d’un tratto la mente.

Pregò Dio, questa volta molto rapidamente, ormai era notte: non c’era tempo da perdere… Si caricò il cadavere del re e, saltellando, inciampando, barcollando, rotolando nella discesa, si avviò verso un sottostante burrone. La tempesta continuava, non cessava di nevicare. Aiutandosi con la luce delle saette, scendeva verso la valle. Non vedeva nessuno e nessuno lo vedeva; in lontananza si udivano solo tuoni.

Fatto qualche miglio scaricò il cadavere. E lui, che non aveva mai toccato anima viva o ucciso un insetto, fu preso da terribili brividi: tentennava. Ma necessità lo spingeva. Pregando ancora Dio infisse, senza guardare, alcuni colpi del corno della capra nella pancia del cadavere; indi lo fece stramazzare in fondo al burrone e recitò per quello un’ultima preghiera. Si sentiva in un certo senso più leggero, ma, contemporaneamente, in un altro certo senso, molto più pesante; senza avvedersene stava ritornando sui suoi passi. Saliva: doveva nascondere il corno della capra. S’imbatté in una grande folta macchia boscosa, proprio inaccessibile, e si fermò. Compì un ultimo sforzo: si liberò di quell’ arma!…

Ma, rientrando nella grotta, fu assalito da nuova allucinante paura: ritrovò quella focaccia appena sbocconcellata e sentì nuovi brividi, altro freddo gli attraversava la schiena. Bisognava far sparire anche quella, occorreva eliminare ogni traccia e poi… non aveva più forza per restare in quel luogo: era necessario allontanarsi!…

Strada facendo odorò quel pane. Non v’era alcun dubbio: emanava uno strano odore anche se apparentemente non disgustoso.

Era notte fonda. La neve scendeva a larghe falde: quei fiocchi cancellavano immediatamente le orme dei suoi calzari e gli lavavano il corpo e le vesti. Alla luce di una saetta intravide un grosso macigno e vi nascose sotto i resti della pagnotta.

Percorse vagabondando alcune miglia sulla neve e finalmente incontrò un ovile dove i pastori lo accolsero con sorpresa e con la solita benevolenza, cercarono di rianimarlo. Era bagnato fino all’osso. Era un cencio anche nel morale: fradicio, era ridotto in uno stato non configurabile, ma più che nel fisico era irriconoscibile nello spirito: era scosso continuamente dal tremito e dai brividi.

Pensava incessantemente al re ed agli abitanti della zona. Aveva sempre paura per quei poveri cristiani. A se stesso non badava, i morsi della coscienza lo attanagliavano …

Lo fecero cambiare nelle vesti, lo costrinsero ad asciugarle, lo posero davanti ad una semispenta brace: lo distesero su una pelle di animale…

Ma cominciò a delirare. Pregava Dio misericordioso, sempre più per gli altri che per sé, più per un morto che per i vivi: cercava aiuto e conforto nel colloquio con il Signore… Non riuscì ad assopirsi neanche un attimo… Conobbe una specie di dormiveglia, se così può dirsi, spaventevole…

All’alba salutò fuggevolmente i pastori che, pur insistendo, non riuscirono a fermarlo. Gli uomini, essendo soliti vederlo digiunare, non si meravigliarono che si allontanasse senza aver voluto accettare un minimo sorso di latte… ma non riuscivano a comprendere…

Vagò senza sapere come e dove… Cercava di fuggire in un luogo, il più lontano possibile…

Aveva smesso di nevicare ed il sole era tornato a splendere su quel candido paesaggio. Sì, capiva che in quella storia c’entrava proprio come Pilato; a volte si configurava di non essere colpevole, ma, purtroppo, si sentiva lo stesso in colpa.

Meditava già di presentarsi alla reggia, di salvaguardare l’incolumità di tutta la gente dei dintorni, di scagionarla, di autoaccusarsi pubblicamente confessando di essere l’unica causa di tutto quanto era successo: voleva rischiare, eventualmente, anche le pene dell’inferno: ma voleva evitare qualsiasi minimo danno a quei cristiani…

Ad una svolta, in uno stretto sentiero, si trovò innanzi due boscaiuoli. Discutevano animatamente: parlavano di un gruppo di soldati che, cercando il loro re smarrito nella tormenta, lo avevano rinvenuto morto in un profondo burrone: vi era precipitato perché inseguito dai cervi e perché trafitto dalle loro cornate. Ora il re, meschinello, era stato già trasportato alla reggia e gli si preparavano solenni funerali…

Fu allora che u rumitu sentì che la sua anima tendeva alla calma: svanivano le preoccupazioni per le conseguenze di quel frangente. In fondo, in fondo, cominciava a respirare…

Nei giorni seguenti non gli successe più niente di notevole. A poco a poco le sue ansie e le sue angosce evaporarono ma non sfumò mai più il ricordo di quella sera nella tormenta fisica e morale.

Ogni tanto la memoria di quell’incidente lo turbava, lo rattristava…· Cercò ogni espiazione possibile… Niente da fare!…

Dopo parecchi anni, ormai vecchio, si ammalò gravemente. Accorsero i pastori . L’eremita, negli ultimi momenti di agonia, delirava: si lasciò scappare alcuni particolari di quei giorni lontani ed i pecorai presenti, addentellando le circostanze, capirono e ricostruirono i fatti, in quei tempi, ormai dimenticati.

Un vecchio pastore, molto legato ô rumitu, compiangendone i tormenti, biasimando la prepotenza e l’ingiustiza del re, esaltando la Giustizia Divina, versando copiose lacrime di sincero dolore dinnanzi all’amico che scompariva, ebbe a concludere: A CCU SPUTA NCIELU N FACCI CCI TORNA !

Fu così che i pastori se ne tramandarono notizia . Questa leggenda presenta strane coincidenze e curiose analogie con alcuni avvenimenti locali. Potrebbe avere un riscontro autentico e reale?

Se si rifletterà sulle idee esposte nei volumi «Morfologia della Fiaba» e «Radici storiche dei racconti di fate», da Jakovlevic Propp e, ancora, sulle teorie contenute nella «Storia del folclore in Europa» di Giuseppe Cocchiara, chissà, alcune notizie tramandate da eminenti storici italiani e stranieri potranno contribuire a rischiarare con raggi di nuova luce le vicende della nostra terra. Ma questo discorso si rimanda ad altra occasione con l’ausilio e l’esame di vecchi libri e di polverosi documenti: si eviteranno frettolose, calamitanti ed avventate, fantasiose e poetiche, interpretazioni, tentazioni ed intraprendenze… per non fare confusione fra lucciole e lanterne…

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