Una passiata nella Castelbuono del Cinquecento. Note di toponomastica urbana
(Di Massimo Genchi) – Spesso non si bada al fatto che la quasi totalità dei toponimi sia giunta a noi attraversando più di mezzo millennio. Disponendo di documenti più antichi, con ogni probabilità, riusciremmo a retrodatare alcuni toponimi al XV secolo o, addirittura, alla fondazione del paese. Stando così le cose, ci si rende conto che i toponimi, a differenza delle parole, riescono a resistere all’usura del tempo, un po’ come le montagne e le vallate e i fiumi che hanno vita (quasi) eterna, diversamente dalle case e dai manufatti. In effetti, riscontrare molti toponimi odierni in documenti del XV secolo fa una certa impressione. Oggi, con il pretesto di una ideografica passiata per la Castelbuono del Cinquecento, si cercherà di mappare antichi e talvolta dimenticati rioni all’interno di alcuni quartieri del paese al fine di restituire una rappresentazione topografica (e toponimica) del tessuto urbano.
Dato che si tratta di un itinerario non convenzionale, si potrebbe partire da sud-est, da Porta San Leonardo, che si apriva sul grande Giardino del Paradiso, di ispirazione araba, un po’ come quello che circonda la Cubba a Palermo. Se si legge attentamente, sulla targa odonomastica è scritto Via del Paradiso, quindi il riferimento è al Giardino e non ô Signiruzzu, che ovviamente non ha bisogno di vie intitolate. Nei pressi della Porta, lambendo la via pubblica, quindi nella stessa posizione odierna, era un modesto abbeveratoio, u canal’i Salunardu costruito a ridosso della cunzerva d’acqua vale a dire di un ‘serbatoio d’acqua’ e, dirimpetto ad esso, era la chiesetta campestre di Salunardu, ancora esistente ai primi dell’Ottocento. Pare di capire che essa fosse ubicata ai piedi dell’orto dei Minori Osservanti di sant’Antonino cioè all’angolo dell’importante arteria viaria – allora quasi del tutto non urbanizzata – che dalla parte bassa del paese, attraverso la Porta San Leonardo, si dipartiva in direzione Geraci e San Mauro. Oggi si chiama Strata ranni, strada grande, perché lunga e larga ma nel Cinquecento tale odonimo indicava la via che da sant’Antonino traversava il Giardino dei Cerasi fino al Cappellone e all’abbeveratoio di san Francesco.
La zona bassa dell’attuale Strata ranni, con le sue sparute casupole, era il rione di Sam-Mircùoriu, già attestato nel 1554, così chiamato per la chiesetta di San Mercurio che, fino alla prima metà del Novecento, sorgeva in quei pressi proprio a ridosso della fontanella, allora una semplice presa d’acqua.
Poco oltre, era il rione di Santu Luca dove sorgeva la chiesetta omonima, posta probabilmente, fra l’ingresso del rione Vitrera e Santa Nicola. Come si vede, allora, tre case e una chiesetta, anche di dimensioni campestri, formavano un rione. Su Santa Nicola ci sarebbe poco da dire, se non che ricade all’interno del quartiere Terravecchia e accoglie una delle chiese più antiche del borgo, già attestata nel 1398. Ma quell’aggettivo accordato al femminile, riferito a un nome di genere maschile, salta all’occhio anche se, a ben pensare, Santa Niquasi si comporta allo stesso modo. Perché succeda questo strano fenomeno orto-fonetico non è per niente chiaro, anche se una qualche ragione dovrà pur risiedere nella grecità di questi due nomi propri.
A valle di Santa Nicola si apriva la piazza attraversata dal torrente che, fluendo lungo l’attuale Strata longa, si gettava negli orti a valle di essa. Al di là del fiume, si apriva l’odierno Corso Umberto che, già nel 1562 era la strada dell’Inchiancato, cioè strada del lastricato, del selciato, proprio perché battuto con la chianca, il mazzapicchio per assestare le selci. Per quel che se ne sa, fu la prima strada ad essere lastricata, sia pure nella sola parte centrale, per rendere più agevole il transito dei carri. Sulla Rrua dell’Inchiancato, nella parte iniziale, prospettava l’antica chiesa di San Giuliano, adiacente a quella dell’Itria, non ancora edificata, e il rione omonimo immerso nel verde dei giardini, che si estendeva a monte della chiesa e all’interno dell’esteso polmone verde che era il Giardino dei Cerasi, preludio al non distante bosco.
Dirimpetto a San Ciulianu, all’incirca fra il fiume e la chiesa del Crocifisso, si estendeva il rione dâ Funtaneddra, già attestato nel 1512 e così inteso per via di una fontanella da attingere acqua posta nei pressi del torrente, forse all’ingresso dell’odierno cortiletto. Un rione, questo, completamente circondato da orti e corsi d’acqua, compreso quello che da san Francesco, attraverso il piano della futura Parrocchia, saettava verso la Rrua dell’inchiantato rifornendo la presa d’acqua che occupava l’area dove, più tardi, sarebbe sorta la Fontana Grande.
La Rrua dell’inchiancato, che oggi tutti chiamiamo a chiazza, era una via di collegamento tra le Porte di Pollina e di Cefalù e la Porta san Leonardo. Si trattava della più importante arteria viaria del paese tanto che lungo essa erano allocate le principali attività commerciali e i fondaci, le stazioni di posta. I due più importanti erano a brevissima distanza l’un l’altro: il fondaco piccolo, nei locali dell’attuale Extra bar, attraverso serpentine, si addentrava verso la Rrua Suttana, la via Collegio Maria, e il fondaco grande che si propagava secondo diramazioni tortuose. Sorgeva, infatti, in quello che fino a poco tempo fa si chiamò Vicolo del Rilievo, collegamento fra la chiazza e la Rrua fera. Rrilìevu in molte parlate siciliane significa “luogo in cui si posteggiavano le carrozze”, “operazione di cambiare i cavalli alle poste” e “posta”, infatti in francese relève significa “cambio, muta” e relever vale “dare il cambio”, da cui il termine italiano rilevare. La presenza di stazioni di posta, dunque, giustifica ampiamente la denominazione di quartiere Taverna dato al rione compreso fra la Rrua Suttana, la Rrua fera e la piazza, nel senso di Platea pubblica.
Quella piazza, non ancora Chiazza nnintra, osservò impassibile il continuo transitare di carri e diligenze e carovane e tutto ciò che allora, in qualche modo, rappresentava trasporti e commercio ed economia. E’ difficile oggi immaginare a Chiazza nnintra come dovette essere, ma provate a pensarla chiusa da una scalinata dalla parte di via sant’Anna, la Piazza dintro di allora, giacché la differenza di quota con piazza Castello era vertiginosa, e aperta sul versante del campanile della Matrice Vecchia, quasi ad accogliere lo sbocco della strada dei Benedettini, la Rrua Suprana ipotizzata da Cancila.
Se ora si osserva la smisuratezza della porta e dell’altezza del vano sotto la torre campanaria, viene da ipotizzare che una volta questa potrebbe essere stata aperta al passaggio. Oggi c’è l’enorme fabbricato di pertinenza della parrocchia – l’ennesimo scempio edilizio – ma pensate a questa torre campanaria aperta alla base da tre lati, così come è ancora oggi a Gangi, paese ventimigliano, per inferire che forse anche la nostra era strutturata allo stesso modo. Ma a prescindere dalla solidità di questa ipotesi, esattamente nelle adiacenze della torre campanaria vi era a Portâ Terra, di cui si parla in documenti della seconda metà del Cinquecento, cioè la porta che – forse proprio dalla Rrua Suprana – immetteva nel Borgo. La Terra, appunto.
Forse è ancora più difficile immaginare a Chiazza nnintra chiusa anche dal versante dû Sarvaturi dove la breccia, in corrispondenza dell’attuale accesso, venne aperta negli anni Settanta del Quattrocento e, in seguito a ciò, tutta la zona ad essa limitrofa divenne la contrada dû Muru rruttu. Fino ad allora, per uscire dû Sarvaturi bisognava addentrarsi nel vicoletto che costeggia da tergo il lato lungo della piazza oppure svicolare salendo dalle traverse laterali, specialmente dall’ultima che oggi non esiste più essendo stata murata dalla parte di via Sant’Anna ma ancora ben visibile dal retro. Essa costeggiava l’ottagonale chiesa di santa Margarita, ancora visibile fra i corpi di fabbrica, si incuneava dietro l’ex carcere e sboccava in corrispondenza della Porta della Terra. Adiacente al prospetto del carcere su via sant’Anna, l’occlusione del vecchio sbocco è più che evidente.
A valle della Porta Cefalù, la strada panoramica che corre in quota lungo il fiume san Calòriu o anche Mulinìeddru, prima di inerpicarsi e raccordarsi con la Rrua Fera attraversava la Bocceria, a Uccirìa, come lo chiama ancora oggi chi vi abita, un rione dove, per la vicinanza al fiume, erano ubicati dei corpi di fabbrica adibiti alla macellazione degli animali e forse anche alla vendita delle loro carni.
Oggi non è per niente agevole ma allora, proseguendo dalla Uccirìa, si poteva risalire il fiume e toccare i rioni dû Ranatìeddru, con le case sparse all’interno di diffusi gelseti, dâ Cunzirìa, dove erano stanziate diverse concerie, e dû Munnizzaru, detto anche u Munnizzarâ Calìa,ai margini del quale venivano riversati i rifiuti del borgo. Il camminamento lungo il fiume continuava fino allo slargo che, qualche secolo dopo, si sarebbe chiamata Madonnô Parmìentu, per via di una icona in pietra della Madonna delle Grazie posta sulla parete esterna di un palmento adiacente a una chiesetta sul lato opposto del fiume. Allora, e per tanto tempo a venire, si chiamava, invece, Scanna-asino, cioè Scanna sceccu, toponimo abbondantemente scomparso.
Ora, sul suo significato si possono fare solo delle ipotesi, tutte equiprobabili, e rotanti attorno al tema ‘che uccide un asino’. Potrebbe essere legato, dunque, alla morfologia del suolo, particolarmente scoscesa prima del fiume e irta oltre esso, quindi tale da schiantare un asino sotto il peso della soma, potrebbe essere legato alla diffusa presenza di agavi, in altre parti del meridione d’Italia dette scanna-ciucce,perché le loro foglie contornate di spine, ferivano seriamente le bestie da soma al passaggio. La ragione potrebbe anche risiedere nell’abbondanza in quel sito di un’erba, l’erba mazzolina, il cui nome arcaico potrebbe essere stato scanna-asinu visto che, in epoca posteriore e fino a oggi, è chiamata affuca-cavaddri.
Da Scanna-asinu, lungo la via maestra delle mandrie, era possibile inerpicarsi attraverso i gelseti del rione Santu Vitu fino alla chiesetta dedicata al santo, posta leggermente al di sotto della fontanella omonima. Non solo nei giardini del rione di Santo Vito, ma un po’ ovunque, era diffusissima la coltura del gelso, la cui foglia costituiva la materia prima per l’industria della seta, che fu assai fiorente nel Cinquecento e della quale ci rimangono un odonimo e un toponimo a perenne testimonianza. Vale a dire: il Cortile Celso, lungo la traversina che collega la Stratê Pùrpuri alla Stratê Minà,e u Mànganu, il rione dove erano ubicati gli opifici della seta, la cui denominazione è legata allo strumento, una sorta di enorme arcolaio, utilizzato per estrarre la fibra dai bozzoli, ma anche all’opificio stesso.
Al pari delle concerie, u mànganu per il suo ciclo di lavorazione necessitava di grandi quantitativi di acqua e ciò spiega l’allocazione delle officine nei pressi del fiume, in quel tratto che già nel 1561 era detto Calateddra e, talvolta, anche Sciddricalora, per il terreno in fortissima pendenza. Ciò, comunque, non impediva, allora come fino a pochi decenni fa, attraverso un impervio viottolo, di risalire la sponda di levante del fiume fino a Pontisiccu costeggiando il tratto di cinta muraria che corre sotto il giardino dî Capuccini.
Pontisiccu, a tutta prima, farebbe pensare a un ponte (che pure c’era) attraversato da un corso d’acqua esiguo o prosciugato. Invece secondo Magnano, la sua denominazione andrebbe connessa al fatto che in quei pressi cadeva il vertice sud della cinta muraria, punto assai delicato per la difesa, che richiedeva un rafforzamento con un fossato scavalcato da un ponte in corrispondenza dell’accesso al borgo.
Era quello il punto più meridionale e di maggiore altitudine della cinta muraria, seguendo la quale si imboccava la ripidissima discesa, intercettando il corso del torrente che tagliava longitudinalmente il tessuto urbano. La cinta muraria, che chiudeva il versante sud del Giardino del Paradiso fino a Porta Salunardu, dava luogo al rione posto a monte di essa, allora come oggi, detto Darrìa i mura, con ovvia motivazione del toponimo.
Dalla Porta Salunardu si potrebbe ripartire, stavolta per contrade extra moenia, a proposito delle quali ci sarebbe molto da dire, da argomentare e da inferire sui diversi toponimi e sulla loro motivazione onomastica. Ma diamo tempo al tempo: io un sugnu saccu ca m’abbuccu e voi non siete ingordi al punto da chiedermi di narrare ancora. Ci ritroviamo presto, allora, e buona fine d’agosto.
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Le immagini della Castelbuono del Cinquecento, a partire da dati iconografici odierni, sono state elaborate da Antonio Prestianni, che ringrazio sentitamente, grazie alle nuove funzionalità di riempimento generativo di Adobe Photoshop basate sull’intelligenza artificiale.
Fonti bibliografiche
O. Cancila, Nascita di una città. Castelbuono nel sec. XVI; Mediterranea ricerche vol. 21; Palermo 2013.
O. Cancila, Pulcherrima civitas Castriboni Castelbuono 700 anni, Palermo-Soveria Mannelli 2020.
E. Magnano di San Lio Castelbuono capitale dei Ventimiglia, Catania 1996
C. Morici Cenno storico sull’origine di Castelbuono 1906